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Perché il carcere è una questione di soldi più che di giustizia.

Perché il carcere è una questione di soldi più che di giustizia.

Una recensione di “Golden Gulag” di Ruth Wilson Gilmore.

di JMMOORE911, per Trincomalee walks. Traduzione: Intersecta

Il testo che presenterò nel seguente articolo è “Golden Gulag: Prisons, Surplus, Crisis, and Opposition in Globalizing California”, di Ruth Wilson Gilmore. Pubblicato originariamente nel 2007, Golden Gulag cerca di spiegare il massiccio aumento del numero di persone incarcerate in California negli ultimi due decenni del XX secolo. Il libro fornisce un resoconto convincente e una spiegazione all’esplosione della popolazione carceraria nella California. Si tratta di un’analisi che colloca tale espansione nel suo contesto politico, economico e geografico. È grazie a questo fondamento teorico che possiamo cercare di capire le economie penali di altri luoghi e, cosa altrettanto importante, sviluppare strategie di resistenza allo stato carcerario.

Spiegare l’espansione penale

Golden Gulag riconosce l’esplosione del numero di persone incarcerate in California come una risposta a “quattro eccedenze: capitale finanziario, terra, lavoro e capacità statale” (p. 57). Ciò con cui non ha avuto assolutamente nulla a che fare è la “criminalità”, la sicurezza pubblica o la giustizia. Il diritto penale e il sistema di giustizia penale possono essere stati i fattori abilitanti di questa espansione, ma non ne sono stati la causa. Essa risiede invece in queste quattro eccedenze, che hanno rappresentato una crisi a cui si è cercato di rispondere in determinati modi. Ma quali erano queste eccedenze?

– Per capacità statale Gilmore si riferisce a ciò che lo stato può fare tecnicamente e politicamente. La svolta neoliberista, sostiene l’autrice, non ha portato a “meno stato”, ma a un declino della “legittimità dello stato ad agire come stato keynesiano (p.84). Lo smantellamento di gran parte della previdenza sociale rifletteva una riduzione della capacità politica dello stato piuttosto che un ridimensionamento della sua capacità tecnica. In realtà, i tagli al welfare generarono un surplus di capacità tecnica statale che rese possibile l’espansione carceraria.

– Il significato di eccedenza di lavoro è evidenziato dall’osservazione di Gilmore per cui «la maggior parte dei prigionieri sono uomini con un’istruzione modesta nel fiore dei loro anni» (p. 111). Mentre il boom keynesiano del dopoguerra e la sindacalizzazione avevano fornito alla classe operaia posti di lavoro sicuri e relativamente ben pagati, l’ultimo quarto di secolo ha visto la ristrutturazione del capitale, il declino dei posti di lavoro nel settore manifatturiero e un deciso attacco alle unioni sindacali. Il “surplus” di lavoro generato riguardò in gran parte e in maniera sproporzionata la classe operaia, la popolazione di colore, maschile e urbana. Furono proprio questi giovani uomini a finire in carcere.

La terra “in eccedenza” riguardava la California rurale, in particolare quelle aree che nel dopoguerra erano state utilizzate per la coltivazione intensiva del cotone. Si trattava di un’industria sia ad alta intensità di capitale che di manodopera. Tuttavia, a partire dalla grave siccità degli anni Settanta,  gli anni del fenomeno climatico “El Niño”, gli altri cambiamenti ambientali e i debiti crescenti minarono l’economia del cotone. E poiché la terra venne sottratta alla produzione, si creò un’eccedenza. Le città locali andarono incontro al loro declino a causa degli effetti economici, i negozi vennero chiusi, i prezzi degli immobili crollarono, la disoccupazione aumentò. Le comunità avevano bisogno di investimenti e avevano terreni “in eccedenza”; la costruzione di carceri fu una soluzione.

– Lo stato è sempre stato un cliente importante (e privo di rischi) del capitale finanziario, soprattutto quando si tratta di offrire un mercato per i capitali in tempi di recessione economica. Dalla fine degli anni Settanta, le aziende private finanziarono sempre più gli investimenti in declino grazie agli utili non distribuiti. Questo generò un’eccedenza in termini di Capacità Finanziaria. Il capitale finanziario disponeva di molto denaro da poter prestare. La costruzione di gabbie richiede finanziamenti e la California, emettendo $5 miliardi di obbligazioni per finanziare la costruzione di carceri, risolse questo problema (p.126).

In breve, la crisi delle quattro eccedenze venne risolta costruendo carceri. La carcerazione di massa deve quindi essere intesa non in termini di criminalità, diritto o giustizia, ma come un meccanismo per risolvere la crisi delle eccedenze del capitalismo.

I limiti dell’abolizione carceraria

La pubblicità per il workshop “Carceral Ecologies” presenta l’abolizionismo come semplice ‘abolizione delle prigioni’. Per me, una tale caratterizzazione, sebbene comune, è altamente problematica. In primo luogo, essa isola le carceri dal loro contesto sociale, riducendo l’abolizionismo alle strategie di decarcerazione e rimozione del carcere; consente di evitare le sfide da porre alla cultura e alla struttura sociale che non solo sostiene le carceri, ma le rende essenziali. In secondo luogo, definendo le carceri come il problema, si punta inevitabilmente a un dibattito su cos’altro fare con le persone detenute che sono effettivamente un problema. L’abolizionismo carcerario invita discuttere sulle alternative (a volte radicali), appoggiando l’idea che le carceri abbiano una funzione legittima che deve però essere sostituita, e che le carceri costituiscano un problema che deve essere eliminato. In terzo luogo, concentrandosi sul carcere come istituzione isolata non si riesce a riconoscere, come sottolinea Gilmore, che “la prigione non è un edificio “laggiù” ma un insieme di relazioni che minano, anziché stabilizzare, la vita quotidiana ovunque” (p. 242). Riconoscere che l’impatto dell’incarcerazione ricade tanto su coloro che sono all’esterno quanto su coloro che si trovano all’interno delle prigioni è essenziale per mettere in piedi una coalizione e cruciale per l’organizzazione del movimento abolizionista. Come sottolinea Gilmore: ‘La maggior parte di coloro che combattono in trincea hanno poco tempo da dedicare a un tipo attivismo basato esclusivamente su una certa retorica politica o etica astratta. Piuttosto, queste persone lottano per le loro vite, le loro famiglie e le loro comunità» (p. 250-1). In quarto luogo, ridurre l’abolizionismo a una singola questione rimuove la necessità (e le opportunità) di impegnarsi con lotte e movimenti sociali più ampi. Se, come fa notare Gilmore (2007), “le carceri sono soluzioni in parte geografiche di crisi politico-economiche, organizzate dallo Stato, che è esso stesso in crisi” (p. 26), allora la loro abolizione può essere raggiunta solo attraverso un’alleanza di movimenti per la giustizia sociale. L’abolizionismo deve estendersi oltre le carceri, includendo non soltanto alternative più o meno radicali, ma anche l’antirazzismo, l’anticolonialismo, il transfemminismo, l’anticapitalismo e le lotte contro l’emergenza climatica. Per avere successo, l’abolizionismo deve essere rivoluzionario. 

Nel testo, Gilmore scrive di un luogo specifico in un momento storico specifico. Quello che è successo altrove è diverso. Pertanto, come può questa analisi essere utile anche in altri luoghi? Suddividerei la questione in almeno cinque punti importanti.

1. Comprensione  
Per comprendere lo scenario penale in cui viviamo, dobbiamo riconoscere che esso è modellato dalla struttura sociale, dalla geografia, dall’economia e dalla politica. Non è una risposta inevitabile alla criminalità, necessaria per la giustizia o per la sicurezza. Ciò non vuol dire che molti dei comportamenti criminalizzati non siano altamente problematici e dannosi, né che non hanno bisogno di risposte e soluzioni. Ma è fondamentale riconoscere che le carceri e altre sanzioni penali riguardano cose completamente diverse . Nello sviluppo della nostra analisi, dobbiamo studiare il funzionamento dell’attuale economia penale nell’interesse del capitale, dello stato e di altri potenti interessi. In particolare, chi beneficia dell’espansione carceraria?

2. Utilizzare questa comprensione per orientare il nostro impegno sulle carceri e gli atti di resistenza alla costruzione di nuove prigioni      
Riconoscere che le carceri non sono un problema isolato, una “single-issue”, non significa che rinunciamo a lottare e ad opporre resistenza alle proposte di costruirne di nuove. Il resoconto di Gilmore sulla resistenza delle comunità in California alla costruzione di nuove prigioni è una fonte di ispirazione. In particolare, dobbiamo ripensare la costruzione carceraria un problema che porta al «sottosviluppo delle regioni» (p.179). È facile immagine come la popolazione locale possa essere inizialmente entusiasta del potenziale vantaggio economico di una prigione. Tuttavia, ciò che l* attivist* di cui ci parla Gilmore possono dirci è non solo in che modo evidenziare la natura molto limitata di questi benefici economici, ma che una prigione comporta costi sociali elevati. Ad esempio, l’impatto delle guardie carcerarie che si trasferiscono nella comunità – “famiglie con tassi di violenza domestica superiori alla media” (pag. 177) – è stato uno dei timori evidenziati dalla popolazione locale di fronte a una possibile nuova prigione. Nelle aree in cui erano state trasferite delle carceri, molte famiglie hanno notato “un aumento dell’uso della paura da parte dei propri figli per risolvere le divergenze” (p. 178).

3. Leadership       
L’attivismo che Gilmore analizza in Golden Gulag è guidato dalle persone della comunità più colpite dal sistema carcere. Prevalentemente donne nere e di colore, “che combattono per le loro vite, le loro famiglie e le loro comunità” (pp 250). L’abolizionismo carcerario è stato troppo spesso dominio di accademic*. Un’efficace campagna abolizionista deve essere guidata dalle persone detenute, dalle loro famiglie e dalle loro amicizie, e costruita attorno ad alleanze con altre comunità che subiscono sia l’oppressione che i fallimenti della giustizia penale. L* accademic* hanno un loro ruolo, ma è molto più probabile che mettano le loro competenze al servizio del movimento piuttosto che “offrire” leadership e direzione.

4. Alleanze  
L’incarcerazione e altre sanzioni penali fanno parte di un problema più ampio. Esistono per mantenere un ordine sociale ingiusto. La lotta per l’abolizione delle carceri è in realtà parte di una più ampia lotta di liberazione. In concreto, sia le persone più oppresse che quelle coinvolte nelle lotte di liberazione sperimenteranno la giustizia penale e il carcere. Mille attivist* di Extinction Rebellion vengono arrestat* mentre i capitalisti continuano a distruggere il pianeta, immuni da qualsiasi sanzione. La criminalizzazione continua ad essere usata contro migranti, persone di colore, prostitute, senzatetto, persone queer e altre categorie oppresse. Allo stesso tempo, essa continua a essere, nel proteggere queste comunità, inefficace nel migliore dei casi e controproducente nel peggiore. Un efficace lavoro abolizionista deve includere tutte queste comunità e campagne, costruire alleanze ed evidenziare i legami strutturali che sono alla base dell’oppressione e della disuguaglianza che caratterizzano il nostro ordine sociale contemporaneo.

5. Soluzioni-non-alternative     
La giustizia penale rivendica la propria legittimità mostrandosi come una risposta a problemi reali. Come comunità, sperimentiamo comportamenti dannosi, violenti e oppressivi. Tuttavia, come fa notare Gilmore, «il crescente ricorso alla polizia e all’intervento statale nei problemi quotidiani accelera la fine delle relazioni informali consuetudinarie da cui dipende la calma sociale» (p.16). L’intervento della polizia, i procedimenti giudiziari, le condanne e la reclusione peggiorano le cose. Alimentano il problema. L’abolizionismo non può ignorare questi problemi e una delle nostre maggiori sfide è sviluppare le nostre risposte. Tuttavia, dobbiamo stare attenti a non creare alternative che riproducano la giustizia penale. Alternative, anche radicali, alla punizione che accettino le definizioni esistenti di ciò che costituisce un comportamento problematico e chi dovrebbe essere il bersaglio degli interventi finiranno per essere controproducenti, rafforzando lo status quo ingiusto. Alla fine, si cerca solo di opprimere in modo più efficace. Un approccio abolizionista liberatorio richiede di tornare al problema che si presenta alla comunità (non allo stato) e cercare di sviluppare soluzioni che siano emancipatrici e anti-oppressive.

Gli scritti e l’attivismo di Ruth Wilson Gilmore enfatizzano continuamente il contesto più ampio del lavoro abolizionista. Il nostro obiettivo può essere il carcere come altre istituzioni di controllo sociale, ma la nostra ambizione è la possibilità di un mondo migliore, più sostenibile, equo e giusto. Come sottolinea eloquentemente Ruthie in un’intervista con Jenna Loyd (2012: 52):

Se l’abolizionismo è, prima di tutto, impegnato nella possibilità di una vita piena e ricca per tutt*, allora ciò significa che tutte le distinzioni e categorizzazioni che ci dividono – innocente/colpevole; con/senza documenti; persona nera, bianca, marrone; – dovrebbero venir meno a favore di altre cose, come il diritto all’acqua, il diritto all’aria, il diritto alla campagna, il diritto alla città, comunque siano questi diritti. Certo, dobbiamo chiederci: qual è la sostanza dei diritti? Che cos’è un diritto? È una cosa o è una pratica? Se un diritto è una pratica anziché una cosa, allora ciò richiede che queste piccole istanze di organizzazione sociale, in cui le persone lavorano per sé stesse e per altr* con uno scopo in mente anziché con un interesse a breve termine che può essere soddisfatto attraverso legiferazioni o altri mercanteggiamenti, cambino l’intero prospettiva sul modo in cui viviamo.

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